“La Storia” di Elsa Morante: uno scandalo letterario che dura da cinquant'anni (2024)

Nel giugno del 1974 veniva pubblicato da Einaudi, in un’edizione economica da duemila lire, nella collana “Gli Struzzi” un capolavoro della letteratura italiana: La Storia di Elsa Morante. In copertina una foto di guerra di Robert Capa che raffigurava il corpo di un soldato riverso sulle macerie nella guerra civile spagnola: i toni dell’immagine sono diverse gradazioni del rosso, rimandano una visione di violenza, di sangue, di morte. L’impatto visivo non è trascurabile.
Il sottotitolo proposto era “Uno scandalo che dura da diecimila anni”: un attacco diretto al Potere che, secondo Morante, schiacciava e soffocava i diritti della gente, del popolo minuto, di coloro che non avevano voce in capitolo nel decidere il proprio destino. E il romanzo, in effetti, uno “scandalo” lo fu davvero.
Nonostante la tiratura iniziale fosse di 100mila copie, vendette 600 mila copie in appena sei mesi dall’uscita, dividendo pubblico e critica, scatenando un acceso dibattito culturale e politico.
Del resto, La Storia era un libro politico sin dal suo paratesto: nell’epigrafe l’autrice si premurava di affermare che il romanzo era dedicato “All’analfabeta per il quale scrivo”, citando un verso del poeta peruviano César Vallejo. Poteva sembrare un paradosso, ma si trattava di una chiara dichiarazione di intenti: Elsa Morante voleva che la sua fosse un’opera popolare, destinata a tutti, anche all’ampio pubblico degli illetterati, non solo alle fasce intellettuali della popolazione italiana. La Storia poneva al centro della propria narrazione proprio gli ultimi, gli emarginati, gli sconfitti, il popolo invisibile che soggiaceva, impotente, dietro le decisioni prese nei palazzi dai soffitti di cristallo, nelle comode alcove del potere.
C’era chi la guerra la stabiliva, muovendo le pedine su una scacchiera, comodamente seduto su una poltrona dietro un tavolo ovale; e chi invece la guerra la subiva, respirando polvere e macerie, patendo lo strazio delle bombe che dilaniavano i corpi, il suono assordante delle esplosioni che squarciavano il silenzio. L’attenzione di Morante è rivolta a questi ultimi, al loro inferno privato.

Il 1974 fu definito l’anno della Storia, poiché non si contano le recensioni, i saggi, le critiche, le annotazioni apparse in quel periodo sui principali quotidiani nazionali a proposito del libro di Morante che sembrava aver catalizzato le attenzioni di un intero Paese. L’opera divise nettamente pubblico e critica: il grande successo editoriale si scontrava con l’opinione poco lusinghiera della critica letteraria; eppure ancora oggi, a cinquant’anni di distanza dalla sua prima pubblicazione, La Storia di Morante vende una media di 8mila copie l’anno. Un successo confermato dal tempo e che, come tutti i classici secondo la massima calviniana, non risente affatto dello trascorrere delle epoche, in quanto è sempre attuale e non cessa mai di dire “quel che ha da dire”.

Scopriamo le ragioni dello scandalo.

Cinquant’anni fa la prima edizione de “La Storia” di Morante

“La Storia” di Elsa Morante: uno scandalo letterario che dura da cinquant'anni (1)

“La Storia” di Elsa Morante: uno scandalo letterario che dura da cinquant'anni (2)

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In quella luminosa estate del 1974, all’età di sessantuno anni (ne avrebbe compiuti sessantadue il 18 agosto), Elsa Morante aveva portato a termine la propria ardimentosa impresa letteraria.
La stesura de La Storia era durata ben tre anni; l’autrice, già vincitrice del Premio Strega con L’isola di Arturo nel 1957, aveva scritto senza interruzione segregata nel suo studio di via dell’Oca a Piazza del Popolo. Ben diciassette anni dopo il suo trionfo “stregato”, Morante componeva uno dei primi bestseller della letteratura italiana. Di quella lunga operazione di scrittura oggi troviamo traccia nei manoscritti conservati nella “Stanza di Elsa” della Biblioteca nazionale di Roma.
Pagine fitte di parole minute vergate con la consueta biro blu, inframezzate qua e là da spietate correzioni in rosso che squarciano le righe come una ferita aperta e mai risanata. I manoscritti de La Storia testimoniano il duro lavoro scrittorio di Morante, ma anche la spietatezza con cui guardava alla sua opera: non era indulgente con le sue parole, voleva portarle al loro massimo livello di significanza, fare il modo che non fossero mai vaghe o incompiute, ma che l’unione tra sostantivo e aggettivo, tra avverbio e locuzione, giungesse alla perfezione della completezza verbale. Si era dedicata con dedizione costante a quel romanzo; proprio lei che, dopo la raccolta di poesie Il mondo salvato dai ragazzini (1968) dedicato ai moti rivoluzionari giovanili di quegli anni, aveva dichiarato che non sarebbe più tornata alla forma narrativa. L’argomento politico, però, le stava a cuore e - a fronte di questo realismo ritrovato, anche grazie alla lettura di Simone Weil - era tornata alla sua scrivania intenzionata a dare forma a un libro capace di inaugurare un nuovo umanesimo, in aperta polemica con il presente. Nelle intenzioni di Morante La Storia doveva essere un’epica moderna, una “Iliade dei giorni nostri”. L’ambientazione dunque Roma, negli anni tumultuosi della Seconda guerra mondiale che la stessa scrittrice aveva sperimentato in prima persona negli anni della sua giovinezza: “attraverso la mia esperienza fisica collettiva”. Qualche presagio circa la controversa ricezione dell’opera Morante l’aveva avuto; in una lettera indirizzata a Goffredo Fofi, nel dicembre 1971, affermava di essere impegnata nello scrivere:

“Un libro che nessuno leggerà mai”.

Non si era limitata, tuttavia, a scrivere il libro, ne aveva curato la forma paratestuale in ogni dettaglio (scelto l’immagine di copertina, il sottotitolo, l’epigrafe) come se stesse preparando il corredino di un neonato; infine si era immischiata perfino nelle questioni commerciali insistendo perché il romanzo fosse pubblicato, sin da subito, in edizione economica. Il direttore commerciale di Einaudi, all’epoca Roberto Cerati, non era d’accordo, sosteneva che non avrebbero ripagato neppure il costo della carta. Alla fine si lasciò convincere dalla testardaggine di Elsa; per fortuna, perché la tiratura de La Storia avrebbe superato ogni previsione disattendendo le misere aspettative iniziali. A fronte delle centomila iniziali, in appena sei mesi ne vendette 600mila, in un anno più di 800mila.
Al grande libro di Morante spettò la sorte di tutti i grandi successi editoriali: fu amato dalle masse, inviso dall’èlite intellettuale. In ogni caso la scrittrice era riuscita a colpire al cuore il suo pubblico, in quanto La Storia nasceva proprio, sin dall’origine, con l’intento di essere un “romanzo popolare”. Lo leggevano gli operai, le casalinghe, gli studenti, non conosceva confini né distinzioni di genere, proprio perché raccontava una storia che era epopea, cronaca ed epica insieme.
I suoi protagonisti: una donna vedova, la maestra elementare Ida Ramundo, un bambino (Useppe), un cane, non erano eroi, ma corpi fragili, vulnerabili, parlavano un “lessico famigliare” che si discostava dagli aulicismi e dai virtuosismi della grande letteratura. Ma il lessico di Morante era semplice, popolare, solo in apparenza, in realtà celava una grande tecnica, una ricerca stilistica esemplare propria dei romanzieri più navigati. Nessuna parola era lasciata al caso: e se poi la scrittrice fu accusata di aver creato un linguaggio del dolore, non era certamente quello il suo intento. Morante aveva scritto ogni pagina - riletta, emendata, corretta - seguendo il principio dell’amore e il mito a lei caro della “pietà”. Elsa Morante non raccontava il dolore indugendo in un tragico vittimismo, in un’atmosfera da melodramma; lei il dolore lo interrogava. E infine lo denunciava, come dimostra il sottotitolo “uno scandalo che dura da diecimila anni”.

“La Storia” di Morante e la critica di Pier Paolo Pasolini

Nota la stroncatura di Pier Paolo Pasolini, che pure di Morante si professava amico. Sulle pagine di “Tempo” Pasolini, in un articolo intitolato Le gioie della vita, la violenza della storia, datato 26 luglio 1974, accusava la scrittrice di non aver amato abbastanza i suoi personaggi, inoltre affermava che si trattava nel complesso di un “grosso libro” che presentava, nel suo fiume di pagine, ben tre romanzi non ben fusi tra loro. Per amalgamare bene le storie, notava Pasolini, Morante avrebbe dovuto lavorarci ancora un anno o due. Si trattava di un “romanzo fallito”, di una sorta di “aborto letterario”, un ammasso di informazioni disposte “disordinatamente, quasi, si direbbe, senza pensarci sopra”.
Riportiamo di seguito un estratto della dura critica di Pasolini a La Storia:

L’ultimo romanzo di Elsa Morante è un poderoso volume di 661 pagine, e il suo «soggetto» è proprio quello che dice il titolo, cioè la Storia. E difficile concepire un progetto più ambizioso di questo: ma si tratta di un’ambizione evidentemente giustificata, se la sola ambizione ingiustificata è quella di scrivere opere limitate e perfette. Illimitatezza e imperfezione sono caratteri della necessità. Illimitato il romanzo della Morante lo è, perché esso indubbiamente trasborda oltre il confine delle 661 pagine, verso immensità di temi, motivi e superfici non verbali. Imperfetto anche lo è.

A quel primo articolo pasoliniano ne avrebbe fatto seguito un altro, di critica ancora più feroce, intitolato Un’idea troppo fragile nel mare sconfinato della storia, pubblicato il 2 agosto 1974.

È l’ideologia decisa tuttavia che, ritagliando l’immenso tessuto dell’ideologia reale - oppure, meglio, restringendola e volgarizzandola - produce la struttura del libro: ossia i due schemi dell’abnorme ma canonica dilatazione narra t i va e della contrapposizione tra vita e Storia.

Quella stroncatura segnò la fine di un’amicizia: Morante non perdonò mai a Pasolini di aver mortificato la sua creatura. C’era una ferocia nelle parole di Pier Paolo che sembrava travalicare l’ambito letterario per toccare una sfera molto più personale.
Il mondo culturale italiano stava compiendo la più clamorosa ingiustizia nei confronti di un “classico moderno”; ma non se ne rendeva conto. I giudizi che piovevano su La Storia erano tanto distruttivi quanto superficiali, forse in fondo gelosi per una scrittrice che aveva saputo raccontare - e denunciare - un nervo scoperto della società italiana. Per fortuna Morante non badava troppo alle critiche, sapeva che il mercato letterario era governato da logiche estetiche e morali spesso contraddittorie. Ciò che lei stessa definiva amaramente:

L’epica dei tempi moderni: dove definitivamente gli eroi non sono coloro che manovrano la macchina del potere, ma quelli che la subiscono.

Però non perdonò mai a Pasolini quella recensione, la visse come un tradimento.

“La Storia” di Elsa Morante: un romanzo divisivo

La critica di Pasolini si contrapponeva alla lettura di Natalia Ginzburg, colei che era stata anche la scopritrice di Morante. Proprio a Ginzburg dobbiamo infatti la pubblicazione per Einaudi di Menzogna e sortilegio.
Nell’articolo pubblicato su Il Corriere della Sera del 21 luglio del 1974, dal titolo “I personaggi di Elsa”, Ginzburg formulò una splendida arringa difensiva di Morante, che iniziava così:

La Storia è un romanzo scritto per gli altri. Ora, da moltissimi anni, l’idea di un romanzo scritto per gli altri sembrava volata via dalla terra. l’idea degli altri, da moltissimi anni, è un’idea che genera angoscia, perché gli altri appaiono irraggiungibili.

Natalia Ginzburg aveva colto appieno quel “nuovo umanesimo” di cui la Storia era intrisa; quell’attenzione agli altri che la critica militante aveva scambiato per pietismo. Inoltre, l’autrice di Lessico famigliare aveva compreso che la voce che animava le pagine della Storia era la voce di chi aveva attraversato i “deserti della disperazione”:

È la voce di chi sa che le guerre non hanno mai fine, e che saranno sempre deportati gli ebrei, o altri per loro.

A Ginzburg, in veste di critica, dobbiamo la lettura più lungimirante del capolavoro di Morante. La scrittrice aveva compreso che quel romanzo sarebbe stato per sempre un classico contemporaneo perché trattava una materia magmatica e al contempo esplosiva, come il dolore, che non avrebbe mai avuto fine, né avrebbe mai conosciuto consolazione. Finché l’uomo fosse vissuto sulla terra ci sarebbero state guerre nel mondo: questa la tragica - quanto reale ed effettiva - consapevolezza che univa tra loro le maggiori scrittrici del Novecento italiano, Natalia Ginzburg e Elsa Morante.

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Curioso anche il caso delle recensioni apparse su “Il manifesto”: a Rita Gagliardi, che definiva La Storia un “romanzo eccezionale”, che davvero fa pensare come del tutto falsa l’opinione corrente secondo cui “il romanzo è morto”, si contrapponeva Rossana Rossanda che altrettanto ferocemente dichiarava:

“La Storia” non solo non mi pare un libro felice, ma quello che più tradisce il limite della Morante. Che è appunto indicato da Balestrini: il non riuscir a concepire che un mondo di umiliati e offesi, che la povertà, o complesse condizioni di emarginazione o devianza, o tracolli generazionali o, stavolta, la guerra e la condizione dell’ebraismo, condannano ad essere ineluttabilmente vittime.

La verità è che il libro di Morante spiazzava le ideologie contrapposte dell’epoca, di stampo marxista o cattolico, con una visione che Cesare Garboli avrebbe definito “poetica”. Fu sempre Garboli, alla fine del 1974, a spiegare il perché di tante critiche mosse a Elsa Morante e lo fece sintetizzando ogni motivazione in una sintesi eccellente, racchiudendo il tutto in una sola parola: “invidia”. Ciò che i critici - o presunti tali - in primo luogo denunciavano era lo straordinario successo commerciale del romanzo.
A pesare sull’opera di Morante era anche il lungo pregiudizio sulla scrittura femminile, per cui un romanzo scritto da una donna doveva essere, per forza di cose, ritenuto frivolo, o lagnoso, o stereotipato (pregiudizio che, tra l’altro, si protrae ancora oggi). Ciò che, soprattutto, si rimprovera a Elsa era il trionfo del patetico: “Sei patetica”, fu l’ingiuria delle ingiurie. Non perdonavano alla scrittrice il fatto di “far piangere” i suoi lettori, come notava nella sua attenta analisi Italo Calvino.
Lo scoiattolo della penna, come lo chiamava Pavese, che pure non elogiava il romanzo, lo difese tuttavia dalle critiche più ingiuste, come quella di patetismo:

Cosa fare allora? Guardarsi bene dall’essere “umani” nello scrivere?

La Storia di Elsa Morante aveva toccato un nervo scoperto della società italiana, la difficile definizione dei confini tra personale e politico. Ciò ne fece un romanzo discusso e che, inevitabilmente, continua a far discutere. Finché questa discussione procede, non si arresta, avremo la certezza che “La Storia continua”.
Come dimostra anche la bella fiction realizzata da Francesca Archibugi, la grande “bufera della Storia” non si è ancora placata. Il romanzo popolare scritto da Morante per la gente ha ancora molto da dire alla gente, indipendentemente dallo spazio e dal tempo in cui è inserito.
Nella lettera a Goffredo Fofi, data dicembre 1971, Elsa Morante parlava del libro che stava scrivendo come di un fiore. Se i “miei fiori faranno schifo”, proseguiva la scrittrice, “me ne andrò all’inferno insieme ai cattivi poeti”.
Quello stesso fiore seminato dal vento compare, non a caso, nelle pagine della Storia:

Sul muro sbrecciato del cortile, dove era spuntato uno di quei fiori seminati dal vento, che nascono dove capita e si nutrono, sembrerebbe, d’aria e di calcinaccio.

Ed è proprio il pensiero di quel fiore ciò che salva l’SS dalla pena dell’inferno, in quell’immagine viene colto tutto l’incantevole stupore della vita. Possiamo quindi cogliere in questo simbolo floreale morantiano un intermezzo autobiografico:

Se potessi tornare indietro, e fermare il tempo, sarei pronto a passare l’intera mia vita nell’adorazione di quel fiorelluccio.

La morale di Morante, non pietosa, ma umana, è racchiusa nella visione del fiore. In questo simbolo di crescita, di rinascita, nella capacità di fiorire persino nelle avversità è custodito il segreto di uno scandalo letterario che dura da più di cinquant’anni.

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